Come percorrerla
Da Casalecchio a Sasso Marconi
Ripercorriamo la Strada medioevale dalla sponda destra del Reno partendo dal suo inizio: il Monumento della Croce a Casalecchio. Questo, in origine, era un segnacolo, una specie di “rotonda” stradale alla biforcazione della Via Saragozza con la Via della Cavera ed il viottolo che porta alla Chiesa di S. Martino: una specie di trivio in corrispondenza col ponte sul Rio Pizzacra (parlando modernamente, siamo all’incrocio fra Via Porrettana, Via Cerioli e Via Panoramica).
Il Monumento era un semplice cippo sormontato da una croce, posta ad indicare la vicinanza ad una chiesa.
Nel 1681 il cippo richiedeva una urgente manutenzione e l’economo della parrocchia di S. Martino, don Francesco Cassanelli chiese aiuto al marchese Valerio Sampieri per il restauro. Nacque così il monumento come oggi lo vediamo: una doppia base che regge una colonna di marmo rosso di Verona, sormontata da una palla di rame e da una croce. Spesa: 65 bolognini.... . .
Davanti a questo monumento, la mattina del 5 maggio 1805, Papa Pio VII (il cesenate Barnaba Chiaramonti) di ritorno dalla Francia dove Napoleone lo aveva tenuto per un anno, virtualmente in prigionia) si fermò a benedire i casalecchiesi che il parroco dell’epoca, il canonico Luigi Uguccioni,. aveva radunato, senza tener conto delle gravi repressioni politiche alle quali, col suo gesto, poteva esporsi.
Il 3 giugno 1829, su richiesta ed a spese del marchese Francesco Sampieri, il Monumento venne tolto dalla strada, perché intralciava il traffico e fu portato sul prato ove ora si trova. Rovinato durante l’ultima guerra, il manufatto fu restaurato dall’ing. Giuseppe Ghillini (che se ne assunse anche tutte le spese). A sinistra abbiamo la Chiesa Arcipretale di S. Martino ed il Sentiero dei Bregoli, per il quale rinviamo all’omonimo opuscolo pubblicato nel 2008 (vedasi la bibliografia)...
La montagnola alle spalle della chiesa è il Colle Castello. Il nome farebbe pensare all’esistenza di un antico luogo fortificato, ma di questo non si trovano tracce. Potremmo però pensare una torre d’avvistamento, in legno, con una palizzata posta in questo luogo dominante e strategico per segnalare al Monte della Guardia movimenti sospetti attorno al Ponte od alla Chiusa di Casalecchio. L’allarme veniva immediatamente “telegrafato” in città con un rudimentale eliografo. Di questo telegrafo ottico si vedono ancor oggi le finestrelle all’Eremo di Ronzano, nella Canonica di S. Vittore e nel Convento dell’Osservanza: tre istituzioni religiose che usavano così comunicare a lunga distanza. A maggior ragione il “telegrafo” era il sistema più pratico per segnalare un attacco militare, molto più sicuro e veloce dell’invio di un corriere.
Iniziamo il nostro viaggio e, dalla moderna Via Panoramica, entriamo nella parte monumentale del Parco Talon-Sampieri che oggi viene ufficialmente chiamato (anche se in maniera impropria) “Parco della Chiusa”. Poiché la nostra strada è lunga, non possiamo, in questa sede, descrivere né questo storico giardino, né, tantomeno, l’antico impianto idraulico che, ancora oggi, dopo più di otto secoli, porta a Bologna l’acqua del Reno. Notiamo solo che, mentre la Villa Sampieri Nuova è stata duramente provata dall’ultima guerra e dal successivo stato di incuria e di abbandono, la Villa Sampieri Vecchia si è salvata e mostra le sue linee di austera eleganza. Questa Villa viene concordemente ritenuta il primo edificio in pietra costruito nella campagna bolognese.
Fra la Sampieri Vecchia e la Nuova scorre il Rio Due Muraglie, la cui acqua veniva ingegnosamente raccolta per alimentare le fontane del giardino all’italiana ed un laghetto in stile cinese. Oltrepassate le dimore padronali, sulla sinistra vi è un gruppo di edifici rurali e le rovine (ormai difficilmente identificabili) della cappella di famiglia, dedicata a S. Gaetano.
Continuiamo il percorso. A destra troviamo il complesso di Villa Ada, con una parte residenziale, semplice e di belle proporzioni, ed una posteriore rustica. L’abbandono degli ultimi anni è stato impietoso. Il nome alla Villa l’ha lasciato l’ultima proprietaria, Ada Balducci, prima dell’acquisizione da parte dei Talon. All’inizio del secolo scorso, la signora Balducci, facendo dei lavori di restauro alla villa , trovò sotto terra una lapide in pietra serena (cm. 80 x 100) con una scritta in caratteri capitali che, in un latino ampolloso e pieno di abbreviazioni, così recitava: “A perenne memoria dei fatti - Questa casa, con le sottostanti cantine e tutte le pertinenze, Giulio, Francesco Maria e Filippo Maria , fratelli e figli del signor Ludovico Castelbarchi, e la signora Laura De Andromatis, moglie, conducono in enfiteusi per il Reverendissimo Rettore della Chiesa senza cura d’anime di S. Martino delle Bollette, fino alla terza discendenza maschile inclusa della detta signora Laura. Ciò terminato, con tutti i diritti e le loro pertinenze e ogni miglioramento essi renderanno alla medesima chiesa gli stessi beni liberi ed a pieno diritto, come risulta secondo la Bolla Apostolica e dai rogiti di Ser Carlo Monari, notaio arciepiscopale - Nell’anno del Signore 1686”.
Come si usava nei contratti di enfiteusi (perché non si perdesse memoria del vero proprietario) la lapide venne posta per ricordare un contratto stipulato dai figli di Ludovico Castelbarchi e dalla loro madre, nel 1686 con il Rettore della Cappella di S. Martino delle Bollette, in Bologna. Il contratto riguardava un terreno con sovrastante edificio di proprietà della Cappella e che i Castelbarchi avrebbero utilizzato e migliorato, con l’obbligo di restituirlo dopo tre generazioni (il ché vuoi dire, praticamente, un secolo).
I Castelbarchi erano, originariamente, ricchi mercanti di seta. La Chiesa di S. Martino delle Bollette ora non esiste più: sorgeva fra Via IV novembre e Piazza Galileo, in quella che era la Piazza delle Bollette (perché lì si andava a pagare certi tributi). Questa Chiesa era anche stata una importante parrocchia nel sec. XIII, poi aveva perduto la cura d’anime ed era diventata una semplice Cappella sotto il giuspatronato dei Canonici di S. Maria di Reno (1567). Quando la lapide venne ritrovata suscitò molta curiosità (anche perché l’omonimia con la vicina Chiesa di S. Martino aveva creato un po’ di confusione). La signora Balducci fece incassare questo pesante documento nel muro della sua villa dove è rimasto per più di un secolo. Poi, con l’abbandono, la pietra è scivolata a terra, fortunatamente senza rompersi. Ora è conservata in Comune.
Proseguiamo. A destra passiamo il Podere S. Margherita. A sinistra la collina che possiamo immaginare con le sue colture tradizionali: vigneti, grano, medicai ed orti di carciofi. Giungiamo alla Cà Bianca dove termina la parte agricola della tenuta. La casa colonica, che era un luogo dell’immaginario geografico casalecchiese, è crollata una ventina di anni fa.
Ora la strada può salire a sinistra verso il borghetto di Gessi di Casaglia, o proseguire, sconnessa, lungo la valle del Reno. Stiamo attraversando la Vena del Gesso. Sul crinale, che impenna con impressionanti calanchi, c’è il “Mérlen” (Cà Merlino). Vediamo massi di selenite con le tracce dei tagli lasciati dai cavatori e tane naturali formate dallo stillicidio dell’acqua. Possiamo fantasticare perché, sotto i nostri piedi, potrebbero esserci grotte e gallerie come al Farneto o alla Spippola...
Lungo il sentiero, a sinistra, incontriamo una casetta usata dagli operai dell’acquedotto. Poco distante c’è uno dei cunicoli di accesso alla galleria dell’ Acquedotto Romano. Un secondo accesso troveremo più avanti.
L’Acquedotto è una delle più straordinarie opere dell’ingegneria romana. Per il rifornimento idrico di Bononia venne scelto il Setta perché aveva acque di qualità migliore rispetto a Reno (su questo punto i nostri antenati erano selettivi e decisi!). L’Acquedotto venne scavato interamente in galleria da squadre di operai specializzati (è leggenda che fossero schiavi) operanti in contemporanea su singoli tronconi. Alla fine i vari lotti combaciarono benissimo (o con un comprensibile scarto) e la pendenza venne tenuta costante. Il pozzo di captazione è in Setta, cento metri a monte dalla confluenza col Reno, ma la galleria non punta diretta su Bologna: segue un percorso tortuoso alla ricerca del terreno migliore e più solido, con un percorso di 18.147 metri.
Incerto l’anno di costruzione: un tempo l’opera era stata attribuita a Mario, poi a Silla, ma è più probabile che sia un dono di Augusto nel 15 a.c., e rimase in funzione fino a tutto il IV secolo della nostra Era, quando delle frane interruppero il flusso dell’acqua. Nel 1781 l’abate Calindri lanciò l’idea della riutilizzazione, ma solo nel 1862 l’ing. Antonio Zannoni (dirigente tecnico del Comune di Bologna ed archeologo) elaborò il progetto di restauro, che fu portato a termine nel 1883. Ancor oggi l’Acquedotto Romano è una delle fonti dell’approvvigionamento idrico cittadino. Sopra la casetta degli operai, sul crinalino di calanchi era stato piantato un bel filare di cipressi frangivento che, una ventina di or sono, furono aggrediti dai parassiti.
Passiamo il Rio Calanchi. Il costone collinare faceva parte, fino al XVIII secolo, del soppresso Comune di Paderno, ove venne trovata la famosa “Pietra fosforica bolognese”, I primi esemplari furono scoperti da un calzolaio curioso, Vincenzo Casciarolo. Il minerale, posto al buio emanava una luminescenza. Il fenomeno turbò il popolo e lasciò interdetti gli studiosi che non riuscivano a spiegare come ciò avvenisse. Però vi furono anche persone molto pratiche che si posero alla ricerca delle pietre fosforiche facendone un lucroso commercio, specialmente con gli stranieri che scendevano in Italia per il “Grand Tour”. Raccogli oggi, raccogli domani, ai giorni nostri la pietra fosforica è diventata sempre più rara, una specie di simbolo bolognese ricercato dai collezionisti di minerali di tutto il mondo. Osservando il fiume alla nostra destra va notato che il suo letto, negli ultimi cinquanta anni, ha cambiato aspetto. Per l’estrazione del materiale ghiaioso (oggi proibita) il letto è stato abbassato di parecchi metri, fino a raggiungere lo strato del galestro. Oggi Reno si presenta incanalato e con un fondo marnoso mentre prima si faceva strada fra compatti ghiareti. Anche la fauna è cambiata, con la presenza di uccelli acquatici (in particolare Germani reali). Stando alle memorie dei cacciatori, fino alla seconda metà dell’Ottocento in zona era segnalata la lontra, ma già all’inizio del secolo scorso la specie doveva essere scomparsa. Negli anni in cui l’estrazione della ghiaia era più attiva, le draghe recuperavano dal fiume di tutto, in particolare tronchi d’albero colossali, portati dalla piena in chissà quali epoche, ed antiche macine da mulino.
Proseguendo l’itinerario, troviamo le rovine di una casa colonica che era chiamata “Ragazzon”, posta vicino al Rio Ragazzano. Non è chiaro se sia stata la casa a dar nome al rio o il rio alla casa. Il termine “Ragazzano” fa venire il sospetto di trovarci di fronte ad un prediale romano, cioè ad un Fondo Rigazzano che, in mancanza di riscontro con un nome proprio di persona, potrebbe indicare un podere rivierasco e bene irrigato.
La casa colonica era modesta ed era abitata fino al 1950-55. Quando i contadini la abbandonarono cadde in rovina.
Proseguiamo il cammino fino ad attraversare il Rio Casetta; in posizione un po’ elevata c’è l’omonima abitazione.
La nostra strada continua fino a guadare (si fa per dire) il Rio Grillone ed il Rio Rii e, in bella posizione dominante troviamo “La Tomba”, un edificio antico, solido e ben piantato. Già il nome (come abbiamo detto) ci rimanda al medioevo, cioè ad una fattoria fortificata (e questa ne ha tutto l’aspetto). Ora la strada corre, comoda e pianeggiante, sotto l’imponente “Sbèlz dél Docca” (Lo Sbalzo del Duca): un contrafforte d’arenaria che, secondo gli anni (e come lo dilava la pioggia) può assumere una colorazione ocra o dorata o decisamente rosseggiante. Questo sbalzo, per chi passa dalla Porrettana, fa da magnifico sfondo al Castello de’ Rossi, un complesso che non è mai stato venduto ed ora è dei duchi Bevilacqua Ariosti, legittimi eredi del primo proprietario. Lo sbalzo, perciò, è “del Duca”.
In questa zona corre una vena di “Acqua Marziale” (termine elegante per significare una acqua solforosa , dal forte odore d’ovo marcio). Le sorgenti erano tenute con cura perché la popolazione locale le frequentava per depurarsi. Una si trova sotto lo Sbalzo, allo sbocco del Rio che scende da Ancognano (un’altra era sotto il Ponte della ferrovia, in Via del Chiù, ma ne è vivamente sconsigliata la potabilità).
Continuando la strada, dopo aver superato un tratto molto ripido, arriviamo ad un quadrivio: a destra si scende al ponte sospeso che attraversa Reno all’altezza del Castello de’ Rossi, a sinistra si sale ad Ancognano ed a Pieve del Pino (che è sulla antica “Via Flaminia militare”) mentre, proseguendo, si giunge a Vizzano. Questa è la nostra meta, Il piccolo cimitero di Vizzano segna il punto ove era anche la piccola chiesa parrocchiale, che venne distrutta completamente durante l’ultima guerra. I parrocchiani, però, hanno riportato in luce le fondamenta a memoria perenne della loro comunità e di quanto hanno pagato per il conflitto. Pochi metri più avanti, sulla destra, la casa a picco sul fiume (dalla quale si gode una ampia vista sulla vallata e la Rupe del Sasso) era il centro di aggregazione per gli abitanti della zona, con bottega, osteria e trattoria. Vizzano era un centro di passaggio, un vero confluente stradale fra chi si muoveva fra Casalecchio ed il Sasso e chi scendeva dalla strada di crinale fra Bologna e la Toscana. Qui un Passatore assicurava anche il servizio di traghetto per portarsi sulla riva sinistra del fiume.
Da Vizzano il percorso moderno corrisponde a quello antico: la strada si snoda, in dolce ondulazione, fra campi e boschetti, superando tanti fossatelli che confluiscono nel Rio Ganzole.
Giungiamo così ad un trivio: a sinistra si arriva alle Ganzole (dove un tempo c’era un mulino che aveva le curiose fattezze di una chiesuola) e, con una buona serie di tornanti, alla “Flaminia militare”, con possibilità di scendere nella Valle del Savena, a Pian di Macina. La seconda strada porta a Mugnano.
Tenendoci invece sulla destra, si supera un piccolo “passo” al cui culmine era una fontana d’acqua purissima. Poiché i molti estimatori finivano col bloccare il traffico, l’acqua di questa fontana è stata portata in uno spiazzo verde e tranquillo, verso Sasso, ove la si può attingere.
Andiamo avanti per qualche centinaio di metri, passiamo sotto l’Autostrada ed arriviamo al Ponte di Albano. Qui finiva la strada medioevale e termina anche il nostro itinerario.
Rientro alternativo verso Casalecchio.
Per tornare a Casalecchio si può suggerire un percorso alternativo (facile ed agevole) lungo la sponda sinistra del Reno.
Dobbiamo tornare al quadrivio ove la strada proveniente da Casalecchio interseca quella che da Pontecchio sale verso Ancognano.
Voltiamo verso Pontecchio ed attraversiamo Reno utilizzando l’elegante ponte sospeso. La struttura portante è tenuta da due funi metalliche e venne costruita negli anni ‘30 del secolo scorso. Questo ponte è così bene inserito nel paesaggio circostante che, quando nel 1990 si pensò di sostituirlo con un ponte in muratura più ampio e di maggior portata, vi fu una mezza insurrezione fra gli abitanti della zona che non volevano perdere la vecchia passerella, alla quale erano sentimentalmente legati. Prima della costruzione del ponte, cioè fino al 1930, qui l’attraversamento del fiume si poteva fare solo in barca e, da tempo immemorabile, si erano succedute generazioni e generazioni di traghettatori. Questi passatori erano uomini straordinari, robusti e coraggiosi: vivevano sul fiume, accanto alla loro barca, e dovevano esser pronti ad ogni chiamata dei viandanti, di giorno e di notte, con il bello ed il cattivo tempo, capaci di sfidare anche le piene del fiume, fermandosi solo con quelle più irruente.
I passatori avevano una clientela varia: dagli abitanti del posto ai mercanti di passaggio, ai pellegrini, ai cavalieri e uomini di chiesa. Dovevano avere, un occhio di riguardo per le autorità, ma non potevano nemmeno sottrarsi dal far favori a chi viveva ai margini della legge, se non sicuramente fuori dalla legge: contrabbandieri, briganti, banditi politici. Per i passatori valeva il detto: “Una mano lava l’altra... ”. Questa ambivalenza, questo destreggiarsi faceva nascere attorno ai traghettatori storie che venivano tramandate, su fatti veri, presunti, leggendari o puramente fantastici.
Uno di questi racconti (degno delle “Novelle della Nonna”) riguarda proprio il Passatore di Pontecchio e l’ha riportata Abdon Altobelli, nell’ “Illustrazione Italiana” (1888).
Dovete dunque sapere che, un tempo, il traghetto che univa queste due sponde del Reno lo gestiva un certo Martino, uomo onesto, e timorato di Dio. Un bel giorno Martino ebbe la sensazione che, dopo il calar del sole, qualcuno si impadronisse della sua barca e girasse su e giù per il fiume. Cominciò a stare attento ed il dubbio divenne una certezza. Martino decise di sorprendere sul fatto il mascalzone che gli portava via il natante e, una sera, si nascose sul fondo della barca e attese il buio. Era una notte terribile, fredda, ventosa e con nubi che promettevano il peggio. Dopo un po’ di attesa, Martino vide arrivare due donne alte, alte e secche, secche. Erano due streghe. Queste salirono a bordo, fecero dei gesti magici e la più autorevole ordinò: “Barca, vai per due!”.
Non successe niente. Le due streghe leticarono un po’ fra di loro, poi la seconda disse: “Barca vai per tre!” e la barca si alzò in volo con la velocità di una saetta.
Martino, terrorizzato, si fece piccolo, piccolo per paura di esser visto dalle creature infernali. Quando le streghe vollero, la barca planò dolcemente a terra e le due orribili donne si allontanarono. Quando si sentì sicuro, Martino alzò il capo e vide che la barca stava su un bel prato fiorito: era una splendida giornata di sole, con una brezza leggera e profumata. Attorno c’erano alberi di frutti che chiedevano solo di esser raccolti. Di fronte a tanta meraviglia, il passatore si sentì tornare il sangue nelle vene; scese a terra, fece qualche passo, poi sentì delle risa sguaiate: poco più in là le streghe facevano il loro sabba con tante colleghe e diavoli. Sentendosi perduto, Martino si rifugiò nella barca. Come il Diavolo volle, le due vecchiacce tornarono; dissero “Barca, vai per tre” e la barca volò a Pontecchio, in un’alba fredda e tempestosa. Da quella notte Martino non fu più lui: la visione del giardino stregonesco lo aveva incantato ed avrebbe voluto tornarci. Ormai dormiva solo nella barca, sperando che tornassero le due donne nere, ma quelle non si fecero più vedere. Né le parole della moglie, né il pianto dei figli, né la benedizione del parroco fecero rinsavire il passatore che raccontava a tutti di quel giardino incantato. Ormai magro, febbricitante e stravolto, in un gelido mattino invernale Martino fu trovato nella sua barca, morto di freddo. Le streghe si erano vendicate. Così finisce la storia del Passatore di Pontecchio.
Noi, che abbiamo attraversato Reno con l’elegante ponte sospeso, ci fermiamo un momento a guardare, poco più a valle, la Chiusa.
E’ un impianto del sec. XVI secolo, voluto dalla famiglia Rossi, per portare l’acqua ad un Canale destinato ad irrigare il campi e a dare energia a tutte le varie attività artigianali che i Rossi avevano voluto all’interno del borgo del Palazzo. La segheria idraulica, che è proprio attaccata alla spalletta sinistra della Chiusa, ha lavorato fino a pochi anni or sono come la centrale idroelettrica, che è nella piazzetta del Borgo.
Sul Reno, dopo il pelago della Chiusa, sulla sponda destra c’è un fondo, chiamato dai pescatori “él fond ‘d Garamaus”. Questo nome “Garamaus” non è facile da interpretare, potrebbe riferirsi ad una “Casa di Ramosi”, cognome abbastanza diffuso ma, essendo andato perduto l’archivio parrocchiale di Vizzano, è difficile verificare se, anticamente, questa famiglia fosse nella zona.
Arriviamo al Palazzo de’ Rossi, uno dei più rinomati gioielli architettonici della Provincia. Il fondatore volle che alla dimora nobiliare con le sue delizie e giardini, fosse annesso un borgo per la lavorazione dei prodotti della tenuta e con delle attività artigianali e proto-industriali che migliorassero l’economia della zona. Questo ruolo propulsore del Palazzo viene enfatizzato dalla fiera agricola che annualmente si tiene in occasione della festa del Nome di Maria (8 settembre).
Attraversato il Borgo del Palazzo, una strada bianca ombreggiata da platani costeggia il Canale fino al Mulino della Pila in Via Pila. Qui, voltiamo a destra e, per una pista ciclo-pedonale, arriviamo ai Laghetti del Maglio. All’inizio della pista vennero trovate, a parecchi metri di profondità, le fondamenta di un vecchio mulino. I Laghetti del Maglio sono l’intelligente sistemazione di una grande cava di materiale ghiaioso. Affidati alla cura della FIPSAS (Federazione Italiana Pesca ed Attività Subacquee) i Laghetti sono diventati un elemento caratteristico del paesaggio ed una area di sosta per anatidi e rallidi in migrazione. Proseguiamo per la pista camionale. Giungiamo all’altezza dell’area di servizio Cantagallo. In mezzo ai campi (ma è difficile notarlo) un cippo datato 1793 segna il confine della giurisdizione del Consorzio della Chiusa di Casalecchio. Siano arrivati ad un’area nomadi; la strada si biforca: a sinistra si arriva al Centro Sportivo di Casalecchio (ove possiamo anche trovare un comodo autobus urbano). Andando invece dritti ancora per pochi metri, una passerella ci fa tornare al Parco Talon Sampieri dal quale siamo partiti. Il nostro viaggio è finito.
Ultimo aggiornamento: 25-08-11